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I social ti stanno dicendo quanto sei importante: quando i dati “anonimi” non sono affatto tali


lunedì 22 dicembre 2025
di Avv. Gianni Dell'Aiuto



Ogni giorno un social, una piattaforma o una app dice ad un utente che è importante. Lo informa che i suoi dati servono a migliorare il servizio, a personalizzare l’esperienza, a rendergli la vita più semplice. Gli chiede di accettare, di consentire, di fidarti. E lui accetta. Scrollando o coin un click, senza chiedersi il perché di quel messaggio e, anche, perché lui è così importante. Lo fa per leggerezza, perché ha fretta, o perché pensa che tanto sappiano già tutto. In fondo, non c’è nulla da nascondere. È il pensiero più comune, e anche il più pericoloso.

Per saperne di più > DATAFICATION: la nostra esistenza in dati

Ogni clic di conferma, tuttavia, non è un gesto neutro, ma una decisione che riguarda la sua identità. I dati che chiedono non sono pezzi di informazione: sono frammenti di lui. Le sue abitudini, le preferenze, gli orari, i gusti, le fragilità. Tutto ciò che, messo insieme, racconta chi è una persona e tutto ciò che lo circonda.

Identità o merce di scambio? La consapevolezza come atto di dignità

La consapevolezza non è paranoia. È dignità. Sapere chi ha accesso ai dati, come li usa e per quale scopo, non è un capriccio da tecnici, ma un diritto civile. La privacy non è un lusso, è una forma di rispetto di sé. Quando una piattaforma ti dice che raccoglie i tuoi dati “per migliorare il servizio”, sta in realtà dichiarando che li userà per addestrare modelli, alimentare algoritmi, costruire profili. Lo fa per sé, non per te. E se non ti informi, se non chiedi, se non leggi, glielo stai concedendo.
Quante volte, specialmente in questo periodo, arrivano avvisi in questa direzione?

Il problema non è che i social ci osservano: è che li lasciamo fare. Per abitudine, per stanchezza, per disattenzione. E a poco a poco, senza accorgertene, ci convinciamo che non valga la pena difendere qualcosa che sembra invisibile. Ma la dignità digitale esiste. È la libertà di dire no, di scegliere consapevolmente, di pretendere che le regole siano rispettate. È la libertà di non essere solo un dato da elaborare. 

Per approfondire > Tanto di me sanno già tutto” oppure “i miei dati non hanno valore”: lezione di consapevolezza su privacy e dati personali


Il vuoto delle regole globali: perché l'etica aziendale è l'unica garanzia

La consapevolezza non ci toglie nulla, ci restituisce misura. Ci ricorda che dietro ogni consenso c’è una persona, non un algoritmo. Ci riporta al centro, dove dovremmo sempre stare. E allora chiediamoci: lo stiamo facendo per leggerezza, per fiducia o per resa? Perché tra essere osservati e concedersi, la differenza è tutta lì. La consapevolezza, tuttavia, non riguarda solo i cittadini, ma soprattutto le aziende che raccolgono e usano i dati. In un mondo in cui le regole cambiano da paese a paese e non esiste ancora una governance globale dell’intelligenza artificiale, il rischio è che ciascuno si costruisca la propria morale digitale. Ma l’etica non si scrive nei contratti di servizio. È una scelta di responsabilità.

Le aziende non possono più limitarsi a rispettare il minimo previsto dalla legge locale. Devono chiedersi cosa è giusto fare, non solo cosa è consentito. La raccolta e l’uso dei dati comportano potere, e ogni potere, se non bilanciato da principi chiari, degenera in abuso o in indifferenza. In assenza di regole universali, la vera differenza la fa la cultura aziendale: quella che decide se un algoritmo debba servire le persone o sfruttarle. La fiducia dei cittadini, dei clienti e dei lavoratori si costruisce anche così, nel silenzio di scelte quotidiane che spesso non fanno notizia ma segnano il confine tra innovazione e manipolazione.

E finché non esisteranno regole globali comuni, la responsabilità delle aziende sarà la prima, e forse l’unica, forma di garanzia.

 




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