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Privacy, social e mondo del lavoro


mercoledì 17 luglio 2019
Avv. Gianni Dell’Aiuto





Un computer o un cellulare consegnato dal datore di lavoro a un dipendente o consulente, dovrebbe essere usato solo per motivi di lavoro. Questa è prima di tutto una buona regola di diligenza, che non dovrebbe mai essere infranta. Inoltre, su detti dispositivi non è opportuno installare app che, per definizione e funzione, non sono attinenti alla propria attività lavorativa: in primis i social e le app di messaggistica. Non parliamo poi dell’uso che ne viene fatto, perché le conseguenze potrebbero essere disastrose.


Ne ha fatte le spese una dipendente di un’azienda che non solo usava Facebook sul cellulare aziendale, ma inviava anche informazioni e notizie aziendali riservate alla concorrenza. Il successivo licenziamento è conseguenza logicamente diretta di una violazione dei doveri di lealtà e correttezza verso l’azienda, ma l’aspetto che maggiormente risalta è che sono state accettate come prova le schermate delle chat estratte dal cellulare della dipendente infedele. Il Tribunale di Bari ha quindi non solo confermato il licenziamento, ma ha aperto la strada al datore di lavoro per poter controllare gli apparati concessi in uso ai dipendenti ai fini di una difesa in giudizio. Anche in una sentenza dello scorso marzo, la Corte di Appello di Roma si era mossa nella stessa direzione, ritenendo legittimo l’accesso da parte del datore ai computer aziendali per motivi di sicurezza.

In passato la Corte di Cassazione si era espressa in una fattispecie analoga, ma non certo identica, ritenendo che un’azienda non potesse accedere alle mail private di un lavoratore, protette da password; nel caso erano prevalse le esigenze di protezione della corrispondenza privata, trattandosi di mailing list e messaggi non destinati alla diffusione. Nel caso di Bari, invece, la circostanza che venissero utilizzati beni aziendali ha portato ad una diversa conclusione.

Aspetto ulteriore da tenere in considerazione è quello dell’ammissibilità degli screenshot delle conversazioni: strumento che già in altre occasioni era stato utilizzato in sede giudiziaria. Già, infatti, in una vicenda che risale al 2012, quando Facebook aveva appena compiuto otto anni, una dipendente era stata licenziata dal proprio datore di lavoro per avere pubblicato sulla propria pagina sul social, commenti diffamatori nei confronti dell’azienda e della proprietà. Anche in questo caso avevano trovato ingresso nel processo le immagini riprese dal profilo della dipendente e, sia il Tribunale competente, sia la Corte di Appello in sede di gravame, avevano confermato il licenziamento.

La Corte di Cassazione, con sentenza del 2018, non solo ha rispettato le decisioni dei giudici di merito, ma è andata oltre e, nella motivazione della sentenza, ha precisato che “La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca 'Facebook' integra un'ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione.” Ergo, è fondamentale prestare molta attenzione a come usiamo i social. 

Ricordiamo infine che, sul punto, è intervenuta anche la Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, con la sentenza del 5 Settembre 2017, C. 61496/08, ha stabilito che le comunicazioni personali possono essere soggette a limitazioni solo se il lavoratore sia stato preventivamente informato del possibile controllo sulla corrispondenza aziendale, delle modalità e delle ragioni che lo giustificano. In sintesi, il datore di lavoro, in caso di assenza del dipendente può monitorarne le comunicazioni aziendali per garantire ad esempio i contatti con i fornitori. Se in queste circostanze scopre mail che ledono l’azienda può poi produrle in giudizio.




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