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giovedì 30 ottobre 2025
Di Avv. Gianni Dell'Aiuto

Ci fu un’epoca in cui l’arrivo di un fax bastava per far sentire un ufficio moderno. Un documento partiva da Roma e arrivava a Milano o a Wall Street in pochi secondi, e l’odore della carta termica era l’odore del futuro.
Bastava comporre un numero, sentire il ronzio della linea e osservare la macchina ingoiare il foglio. “È la fine delle lettere”, si diceva. E forse lo era davvero. Ma prima del fax c’era stata la macchina da scrivere, e per quasi un secolo era rimasta quasi immutata.
La Olivetti Lettera 22, la Remington, la Underwood: tasti, inchiostro, carta, ritmo. Una tecnologia stabile, che aveva trovato il suo equilibrio. L’innovazione non correva, maturava. La macchina da scrivere non cambiava ogni anno; migliorava lentamente, come il vino o la saggezza.
Era lo strumento di un tempo in cui il pensiero doveva formarsi prima di essere scritto, non digitato e corretto all’infinito. Poi, in pochi decenni, tutto si è accelerato. Il fax portò la velocità nella comunicazione scritta, il floppy disk introdusse l’idea che i documenti potessero viaggiare senza carta, e il BlackBerry fece credere che l’intero lavoro potesse essere tenuto nel palmo di una mano.
Ogni oggetto sembrava definitivo, finché non veniva superato dal successivo. E ogni volta pensavamo: “Ecco, ora sì, il progresso ha raggiunto il suo limite”. Solo per accorgerci, pochi anni dopo, che quel limite non esisteva affatto. È una corsa che ha un prezzo. Quando Jules Verne, nel 1863, scrisse Parigi nel ventesimo secolo, immaginò una città in cui le macchine avrebbero sostituito la fantasia, e gli uomini, sommersi da comunicazioni istantanee, avrebbero perso la capacità di pensare. Nessuno volle pubblicarlo: sembrava un incubo tecnologico. Oggi è la nostra quotidianità.
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Viviamo nell’epoca in cui la tecnologia non sorprende più, ma si consuma. Il fax, il floppy e il BlackBerry sono relitti recenti, simboli di un progresso che brucia se stesso in una spirale di obsolescenza. Eppure, dietro questa velocità, c’è qualcosa che cresce e non invecchia mai: il dato.
Il dato è diventato la vera materia prima del nostro tempo. Mentre le macchine cambiano, i dati restano, si accumulano, si incrociano. Il fax trasmetteva parole e firme; oggi trasmettiamo noi stessi, sotto forma di coordinate, preferenze, abitudini, immagini, voci. La tecnologia non si limita più a servirci: ci osserva, ci misura, ci interpreta. Ogni gesto digitale è un frammento di identità che lasciamo dietro di noi.
Un tempo l’inchiostro della macchina da scrivere si cancellava con il bianchetto. Oggi nulla si cancella davvero. I dati, una volta generati, continuano a vivere in server, backup, copie, metadati. E così, mentre le macchine passano di moda, la memoria digitale si fa eterna, ma non sempre consapevole.
Il fax aveva almeno la cortesia di farsi vedere: arrivava, faceva rumore, lasciava una prova tangibile. La comunicazione digitale, invece, è silenziosa. Attraversa server di Paesi diversi, supera confini giuridici invisibili e ritorna a noi trasformata in profilo, punteggio, pubblicità. Ciò che spediamo oggi non è solo un messaggio: è un pezzo di noi.
Il vero progresso, allora, non sta più nella velocità delle connessioni o nella capacità dei dispositivi, ma nella coscienza dei nostri dati. Nel ricordarci che ogni byte è una parte della nostra identità, e che il diritto, come la macchina da scrivere di un tempo, deve dare forma, equilibrio e misura a un mondo che tende a smaterializzarsi.
Forse, la lezione del fax, della Lettera 22 e del BlackBerry è proprio questa: la tecnologia passa, la memoria resta. E nella memoria si gioca oggi la più grande sfida della civiltà digitale: quella tra la rapidità dell’innovazione e la lentezza della consapevolezza. Perché il progresso, come scrisse Verne, “non è nulla se non sa dove andare”. E il compito dell’uomo, oggi più che mai, è tornare a guidarlo.
lunedì 20 ottobre 2025
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