GUARDA QUIhttps://accademiaitalianaprivacy.it/areaprivata/foto/2004/01.jpg

Dettaglio news
La faccia nascosta delle chatbox: tra cortesia digitale e gestione dei dati


lunedì 20 ottobre 2025
Di Avv. Gianni Dell’Aiuto



Immagina che vuoi organizzare una splendida vacanza o un viaggio d’affari e, per farlo, cerchi un hotel perfetto per te.

Chatbot e dati 

Lo trovi e, sul suo sito, compare una chatbox che accoglie l’ospite in tempo reale. Decidi quindi di informarti e chiedi “Vorrei una camera con letto ortopedico e menù senza glutine”. La chatbox risponde immediatamente, precisa e cordiale, come fosse una receptionist digitale sempre disponibile. Sembra una scena innocua, quasi rassicurante. Eppure, dietro quel dialogo si apre un mondo complesso, fatto di responsabilità giuridiche, scelte tecniche e rapporti di fiducia.

La stessa logica vale per un e-commerce che usa un assistente virtuale per guidare l’acquisto e raccoglie preferenze di consumo, oppure per uno studio medico che impiega una chat automatica per fissare appuntamenti e ricevere indicazioni su allergie o terapie in corso. In tutti questi scenari, dietro la semplicità della risposta immediata, si cela lo stesso interrogativo: chi utilizza davvero i dati raccolti e chi li conserva?

Potrebbe interessarti > Il Mercato delle Chatbot: Una Rivoluzione da 63 Miliardi di Dollari nei Prossimi 5 Anni

La prima questione da chiarire è chi deve scrivere le regole del gioco. Molti siti si limitano a installare la chatbox così com’è, affidandosi completamente al fornitore che ben potrebbe non essere chi crea e gestisce il sito. Come vengono disciplinati i rapporti contrattuali tra tutte le parti? Vengono inserite le opportune clausole a tutela di tutti?

Una prima considerazione per chi si avvale del servizio di una chatbox: il contratto non deve essere redatto dal tecnico che fornisce il servizio: deve nascere, nel nostro esempio, dall’hotel, che è il titolare del trattamento e ha il rapporto diretto con il cliente. È l’albergatore a raccogliere le richieste, a custodire informazioni che possono toccare la salute o le abitudini personali dell’ospite, e non può delegare questa responsabilità a chi fornisce soltanto uno strumento.

Se lo sviluppatore di AI vuole avvalersene dovrà predisporre un diverso strumento contrattuale e, comunque, avere gli opportuni consensi per trattare i dati di un utente che potrebbe anche non essere completamente anonimo. Se ci si limita a seguire il flusso e a lasciare libertà totale al fornitore, il rischio è di trasformarsi inconsapevolmente in un tramite per sistemi di intelligenza artificiale generativa e di profilazione.

La chatbox non è un semplice widget di cortesia: interpreta linguaggio, classifica dati, crea correlazioni. Se i dati degli ospiti vengono usati per addestrare modelli, alimentare pubblicità mirata o arricchire database esterni, l’hotel non può pensare di essere estraneo. È coinvolto, ed è responsabile.

Ci si potrebbe allora chiedere quanto sia invasivo questo strumento. La risposta non è univoca. Una chatbox che si limita a elaborare la richiesta e a fornire un riscontro immediato, senza memorizzare oltre il necessario, resta poco intrusiva. Diverso è il discorso se la conversazione viene registrata a lungo, se i dati vengono trasferiti su server esteri o se vengono combinati con altre fonti.

Potrebbe interessarti > Intelligenza Artificiale: la grande discriminatrice. Bias nei sistemi e responsabilità umane

In quel caso l’assistente digitale diventa un occhio che penetra nella vita dell’ospite, raccogliendo informazioni intime come allergie, disabilità, abitudini alimentari. È bene ricordare che ogni volta che un cliente scrive “sono celiaco” o “ho bisogno di una stanza accessibile”, si entra nell’ambito dei dati sensibili tutelati dal GDPR, con tutte le cautele che questo comporta.

Conclusioni

La vera domanda, dunque, non è quanto sia utile la chatbox, ma chi se ne assume la responsabilità. Un hotel che adotta questo strumento deve sapere esattamente cosa accade ai dati, per quanto tempo vengono conservati, chi vi ha accesso e per quali finalità. Deve pretendere trasparenza dal fornitore, ma deve essere il primo a stabilire i confini. Perché il cliente non dialoga mai soltanto con un algoritmo impersonale: dialoga con una struttura che ha scelto di usare quell’algoritmo e che ne risponde giuridicamente ed eticamente.

In definitiva, la chatbox dell’hotel non è soltanto un mezzo per velocizzare le prenotazioni o soddisfare richieste particolari. È un banco di prova della serietà con cui un’organizzazione gestisce la relazione digitale con i propri clienti.

Se l’ospite ha la percezione che le sue informazioni siano trattate con superficialità, la fiducia svanisce. Se invece sente di essere al centro di un sistema che rispetta i suoi diritti e la sua privacy, allora la tecnologia diventa davvero un valore aggiunto, non un rischio nascosto.




CONDIVIDI QUESTA PAGINA!