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giovedì 12 giugno 2025
DI Avv. Gianni Dell’Aiuto
Chi parla di sostenibilità, di ESG e di corporate governance, oggi, senza mettere sul tavolo la questione dei dati personali, sta raccontando solo una parte della storia. Ed è la parte più comoda. Perché parlare di principi etici e bilanci sociali è di moda, rassicura gli investitori e fa bella figura nei convegni.
Ma la verità è che ogni scelta di governance incide su come vengono raccolti, trattati, custoditi e, soprattutto, condivisi i dati delle persone. E se questi dati finiscono in mani sbagliate, o semplicemente troppo larghe, salta tutto: la reputazione, la fiducia, la legalità.
Il GDPR, in questo contesto, non è una legge tecnica. È una legge di potere. Una legge che impone di scegliere chi vede cosa, chi accede a cosa, chi decide cosa. Una legge che obbliga l’azienda a domandarsi non solo “possiamo trattare questo dato?”, ma “perché lo stiamo trattando?”, “chi deve davvero conoscerlo?” e “chi deve restarne fuori?”. La risposta a queste domande è tutta governance. È una questione di ruoli, di limiti, di autorizzazioni. È l’abc di ogni organizzazione sana.
Perché non è vero che più persone conoscono, meglio è. Non è vero che condividere sempre e comunque sia segno di trasparenza. La trasparenza senza criterio diventa caos. Il dato personale non è un comunicato stampa, né un foglio Excel da far girare via mail tra reparti. È una responsabilità. E nella responsabilità c’è una parola che le aziende stanno dimenticando: selezione. Selezionare significa decidere chi è autorizzato, e chi no. Chi deve sapere, e chi deve ignorare. Perché in azienda non tutti devono sapere tutto.
Chi ha ruoli operativi non deve accedere a dati sensibili di colleghi, clienti o fornitori se non è strettamente necessario. Chi gestisce i sistemi non deve sbirciare nei contenuti. E chi decide le strategie deve sapere che anche i dati sono strategia. E possono diventare mina.
Il Consiglio di amministrazione non può continuare a considerare i dati una materia da demandare. Il principio di accountability lo inchioda a una responsabilità diretta. Deve sapere cosa viene fatto dei dati, da chi, come e con quali garanzie.
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Deve pretendere la mappa dei trattamenti, il registro aggiornato, le policy vive e applicate, le procedure d’emergenza testate. Deve approvare, non solo ratificare, le misure di sicurezza, le nomine dei responsabili, le modalità di controllo degli accessi. E deve decidere a monte, non correre ai ripari dopo un data breach.
Governare oggi significa anche saper dire dei no. No a strumenti digitali invasivi. No a software che non spiegano dove vanno a finire i dati. No a fornitori opachi. No a processi interni senza tracciabilità. Il GDPR, quando è applicato con rigore, diventa una bussola di governo. Costringe a fare ordine. A disegnare responsabilità. A evitare quella deriva per cui tutto è di tutti, e quindi tutto è di nessuno. Nel tempo delle dashboard condivise, dei drive aperti e dei sistemi di monitoraggio pervasivi, serve una cultura del limite. Una cultura dell’autorizzazione consapevole.
Una cultura per cui ogni accesso è una scelta, non un automatismo. Perché chi accede a un dato, anche solo per leggerlo, può fare un danno. E ogni danno è una ferita al corpo dell’impresa.
La protezione dei dati non è un freno, è un filtro. È la linea di confine tra il governo e l’anarchia informativa. È il modo con cui un’azienda dimostra di sapere chi è, dove sta andando e con quali strumenti. È governance nel senso più pieno del termine. E chi ancora non l’ha capito, è fuori tempo. O peggio: è fuori rotta. Perché chi governa un’azienda oggi, governa anche i suoi dati. E chi non governa i dati, non governa più nulla.
lunedì 9 giugno 2025
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