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Social: un’arma mortale in mano a tutti


venerdì 2 ottobre 2020
Avv. Gianni Dell’Aiuto



Un ragazzino di undici anni è morto a Napoli, probabilmente suicida a causa di un gioco social. Questa volta i giornali parlano di Jonathan Galindo, un personaggio che si muove in rete e sceglie come vittime giovanissimi: a piccoli step li invita ad accettare sfide sempre più pericolose fino all’esito che avrebbe avuto questa volta. Doverosamente si usa il condizionale per la vicenda, in attesa del risultato delle indagini, ma troppi indizi, riportati con dovizia di particolari dalle cronache, inducono a propendere per l’induzione al suicidio del giovane coinvolto in una sfida.

Prima di questo nuovo inquietante gioco era stata la volta di Blue Whale, che sembra abbia causato 130 suicidi tra giovanissimi e, successivamente, della Momo Challenge della quale Jonathan Galindo avrebbe preso il posto, come segnalato da alcuni siti almeno già dallo scorso Luglio. La sfida di Momo si è svolta principalmente su WhatsApp, mentre Jonathan Galindo utilizza principalmente i social media popolari tra i giovani: Instagram e TikTok su tutti, ma anche Facebook e Twitter. Su queste piattaforme sono già apparse dozzine di profili "Jonathan Galindo". Probabilmente moltissimi sono stati creati anche a seguito delle ultime, drammatiche notizie e si trovano ancora in rete nonostante, ad esempio, Facebook abbia dichiarato di avere temporaneamente nascosto i post che ne contengono il nome.

Se mai se ne fosse sentito il bisogno, abbiamo avuto l’ennesima prova non solo della pericolosità dei social, ma anche dell’incapacità da parte di molti di saperli gestire e, peggio ancora, di chi li lascia in mano a chi non ha ancora la consapevolezza di ciò che può causare un uso improprio di questa vera e propria arma. E' di poche settimane fa la notizia di una ragazza morta negli Stati Uniti per avere accettato una sfida su TikTok e assunto una dose di un antistaminico che, nelle sue intenzioni, doveva al massimo causare uno stato di eccitazione o di supposto benessere, ma che si è invece rivelata letale.

L’allarme, a questo punto, deve essere rivolto a chi ha il dovere di controllare ed educare i più giovani, ai quali con troppa nonchalance vengono messi in mano strumenti pericolosi oltre quanto ci si possa aspettare. Ma sembra che quanto accaduto fino ad oggi non sia stato sufficiente ed è fin troppo facile vedere come anche bambini usino con disinvoltura social a cui non dovrebbero accedere. E’ stato più volte evidenziato come Tik Tok venga accusato di incentivare la pedopornografia, ma ciò non frena la quotidiana diffusione di video. Neppure le notizie dei feriti per la Skull Breaker Challenge e la duplicazione di profili giovanissimi venduti principalmente su Instagram ed usati per giochi di ruolo sembrano sufficienti.

Non solo quindi i pericoli che tutti corriamo in rete per i nostri dati e dei quali sembriamo ancora inconsapevoli, ogni volta che lasciamo accesso libero ai nostri dati con dei clic con i quali li mettiamo a disposizione di sconosciuti che si trovano dall’altra parte dello schermo: sembra quasi che a fronte di pedofilia on line, cyberbullismo, ricatti sessuali e, adesso, l’induzione al suicidio di bambini, il furto di dati e di identità personale possano essere considerati paradossalmente dei problemi minori. La vicenda della bambina di due anni che con il cellulare della madre acquistò un divano su Amazon non dovrebbe essere letta come una barzelletta, ma riconsiderata. Così come il fenomeno Hikikomori (giovani che si isolano dal mondo per vivere solo con il collegamento internet) o casi di anoressia a causa di siti e profili che la promuovono come stile di vita positivo sono solo alcuni dei problemi che si abbattono sui giovani in rete. 

Purtroppo non esiste ancora una cultura della protezione di noi stessi in rete. Deve essere creata. Scuole, famiglie e istituzioni hanno molta strada da fare ed andrebbe fatta insieme per proteggere chi è più esposto ai pericoli della rete.




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