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Non chiamiamola più privacy: forse capiremo


lunedì 4 novembre 2019
Avv. Gianni Dell’Aiuto



In una recente intervista il Garante ha parlato di ingenuità dei consumatori ed evidenziato come il sistema di protezione dei dati creato dal GDPR sia un baluardo a difesa di loro stessi. Parole a dir poco opportune e che pongono in evidenza come debba ancora essere creata una cultura della protezione del dato che, specialmente in Italia, è ben lungi dall’avere una sua esatta configurazione, al punto che non si percepisce alcun senso di consapevolezza del contesto che ci troviamo ad affrontare.

Ci sono due dati di fatto difficilmente contestabili, primo: i dati personali sono l’oro e il petrolio dell’epoca in cui viviamo; hanno lo stesso valore di questi due prodotti messi insieme; secondo: la bugia che viene detta con sempre più allarmante frequenza è un “si”, detto con un click sul mouse o con un tocco sullo schermo di un cellulare, quando proseguiamo una navigazione. Quel gesto, che rappresenta un sì, è l’autorizzazione al trattamento dei nostri dati e l’ammissione di avere letto e compreso il contratto che abbiamo appena concluso e tutti i possibili usi che verranno fatti dei nostri dati da parte di chi è dall’altro lato dello schermo.

Nella stessa intervista il Garante è andato oltre, sottolineando come la ricerca della privacy sia la richiesta di un privilegio anacronistico nell’epoca di massima compenetrazione tra uomo e tecnologia: ognuno di noi ha abdicato alla propria privacy nel momento in cui ha acceso il suo primo computer o il suo primo cellulare. Ciò non ci priva dal provare a tutelarla ma, in ogni caso, con la nuova normativa europea, impedisce ad altri di utilizzarne una parte senza il nostro consenso: questa parte è rappresentata dalla tutela dei nostri dati.

Cerchiamo di ricordare che, più correttamente, sarebbe opportuno e corretto usare il termine privacy come sinonimo di quello italiano, che rende maggiormente l’idea, di riservatezza; protezione della sfera personale. Proteggere la privacy e tutelarla vuol dire proteggere un luogo di lavoro, la casa, lo spazio virtuale. E quello lo possiamo fare mettendo delle tende o smettendo di usare social, applicazioni o altri sistemi in rete che non prescindono dalle tracciature e da una costante motorizzazione dell’utente. Questo è compito di ciascuno di noi.

Viceversa il GDPR è una norma rivolta verso gli altri, e impone a loro un ben preciso dovere: coloro che ricevono legalmente dati personali altrui, o ne sono nella disponibilità per l’adempimento di obblighi, devono proteggerli, non farseli rubare, non divulgarli, non metterli a disposizione di chi ne fa commercio o un uso per il quale non è stato dato il legittimo consenso.

Una sottile distinzione non solo terminologica che dovrebbe essere pian piano assimilata da tutti, specialmente dagli utenti della rete, sempre più distratti quando si tratta di proteggersi: se da un lato si invoca il diritto alla privacy, dall’altro nessuno si sottrae al rituale quotidiano di farsi vedere dagli amici sui social, informarli su che cosa stiamo mangiando, della nascita di un figlio o di quanto odiamo i broccoli. Non importa che non si mettano fotografie, basta scrivere che siamo contenti perché le elezioni sono andate bene o perché ha vinto la Fiorentina o la Juventus, oppure anche dire di avere il raffreddore ad ogni cambio di foglie ed ecco che la rete è diventata proprietaria di un mio dato sensibile. Creiamo allora un minimo di consapevolezza nell’utente che, forse, allora sarà disponibile a comprendere che cosa sia la protezione del dato e dove differisca dalla tutela alla riservatezza (non chiamiamola privacy questa volta). E in questo il compito degli operatori non è semplice.




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